Relazione presentata nel corso del Convegno di Milano del 18 novembre 2010 dal titolo: “Minori oltre la detenzione”
Interventi territoriali multiprofessionali con minori d’area penale abusatori di sostanze stupefacentiIntroduzione
La giustizia minorile si interroga sul tema dell’interazione tra abuso di sostanze e devianza, tema che si colloca in realtà su una zona di confine tra le competenze specifiche della giustizia e quelle dei servizi territoriali. Il senso di questo interrogarsi è legato alla costruzione del progetto terapeutico che, nel caso di minori in carico alla Giustizia mnorile che presentano problemi di dipendenza, diviene ovviamente più complesso perché legato a due obiettivi tra loro interdipendenti, il superamento della dipendenza (che non ricade nelle competenze dalla giustizia ma dei servizi sanitari) e il processo rieducativo (che invece attiene a questa amministrazione). Le riflessioni su questo tema pongono inevitabilmente gli operatori della giustizia minorile a contatto con una sofferenza psicologica dell’adolescente che ha subito importanti trasformazioni rispetto al passato, trasformazioni che è necessario conoscere per chi si trova ad occuparsi del minore seppure, come detto, non dal punto di vista strettamente sanitario. Coerentemente con quanto segnalano gli esperti, e senza entrare in questa sede nel dettaglio di tale questione, da un punto di vista prettamente psicopatologico, si assiste ad un accentuarsi dell’incidenza dei disturbi di personalità, che si esprimono attraverso sintomi e manifestazioni comportamentali oggi sempre più difficilmente inquadrabili nei sistemi nosografici a disposizione. Da un punto di vista psico-sociale, invece, il crescere degli episodi di violenza che vedono coinvolti adolescenti, sia come agenti sia come vittime, ci invita a riflettere da una parte sullo specifico della condizione adolescenziale nella società contemporanea, dall’altra sul significato che tali episodi assumono oggi, alla luce di tutta una serie di cambiamenti che ora cercheremo sinteticamente di delineare.
Entrambi i dati segnalano che le tradizionali teorie psicologiche, che vedevano l’adolescenza come una fase di passaggio individuando il nucleo del disagio adolescenziale proprio nella sfida posta dai diversi compiti evolutivi cui l’adolescente doveva far fronte, è oggi messo in crisi, o se vogliamo reso più complesso, da una serie di altri fattori contestuali che riguardano, più in generale, i cambiamenti che hanno investito negli ultimi decenni la struttura sociale e familiare. Anche sulla base di tali cambiamenti, l’adolescenza è andata sempre più perdendo la sua valenza di fase di passaggio per diventare una fase di sospensione temporale dai confini indefiniti.Se prima quindi l’elemento più evidente dell’adolescenza era il conflitto con le figure genitoriali, e con l’autorità in generale, oggi assistiamo ad una sorta di apparente pacificazione tra le generazioni, che caratterizza le famiglie moderne o, come direbbe Bauman, post-moderne. Non a caso, il rapporto esistente tra la realtà dei nuovi adolescenti e le modalità di esercizio della funzione educativa da parte degli adulti costituisce un argomento centrale anche nel dibattito socio-psicologico attuale. L’interpretazione del ruolo genitoriale che si realizza nella così detta ‘famiglia affettiva’ trova espressione non solo nelle modalità di regolazione delle dinamiche interpersonali, ma anche nel modo in cui oggi viene assolta la funzione educativa.
L’esercizio di questa funzione sembra basarsi sulla convinzione secondo la quale è possibile una educazione neutrale, cioè non fondata sulla necessità di trasmettere ai figli valori e regole universali, quanto piuttosto di creare condizioni favorenti la libera espressione della loro personalità.
Obiettivo primario in questo nuovo tipo di famiglia è quello di favorire un clima relazionale intrafamiliare fatto di reciproca accettazione; laddove nella ‘famiglia normativa’ di stampo tradizionale l’accesso ai valori e alle norme sociali presentificate dai genitori, passava necessariamente attraverso una buona dose di repressione, e determinava una coloritura decisamente conflittuale della relazione. Questa particolare modalità di esercizio della genitorialità produce un clima relazionale sufficientemente pacificato: gli adolescenti si mostrano soddisfatti delle loro relazioni familiari (1), e non hanno da lamentarsi circa le regole che i genitori prescrivono o per altri aspetti, quali il poco tempo che trascorrono insieme a loro, che sembra oramai accettato come una realtà di fatto su cui si strutturano le dinamiche familiari. Tuttavia va segnalato che questa trasformazione implica anche il venir meno della funzione di “contenitore” educativo della famiglia. Infatti, a ben guardare, dietro questo quadro di ‘famiglia pacificata’ emergono alcuni segnali di disagio.
Come sottolinea P. Charmet (2), gli adolescenti, se utilitaristicamente apprezzano i vantaggi che tale clima relazionale comporta, ad un livello più profondo mostrano inquietudine per l’impossibilità di rinvenire solidi punti di riferimento. E’ in questo scenario che la richiesta di una autorevolezza, percepita come assente in ambito familiare, viene proiettata all’esterno. La sostanziale ‘latitanza’ dell’adulto e della sua funzione normativa, sono alla base di quella tendenza dell’adolescente a ‘farsi il suo Edipo con la polizia’, di cui parlano Benasayag e Schmit nel loro libro L’epoca delle passioni tristi: “Il giovane che deve esplorare la sua potenza, sperimentare i limiti della società, che deve insomma affrontare tutte le funzioni tipiche dei riti di passaggio dell’adolescenza occidentale, non trovando un quadro familiare sufficientemente stabile, sposta la scena nella città, nel quartiere.” (3) In sostanza, questa pacificazione apparente che caratterizza l’ambito familiare si regge, di fatto, su uno spostamento del conflitto da parte dell’adolescente in altri ambiti, come peraltro segnalato dall’esasperazione delle sfide con la morte che altro non sono, dal punto di vista simbolico, che trasposizioni dei riti di passaggio che caratterizzavano l’epoca pre-moderna.
Uso e abuso di sostanze e nuove modalità di consumo come facilmente intuibile, parallelamente a queste trasformazioni che attraversano l’ambito sociale e famigliare, e che come detto riguardano anche il concetto stesso di adolescenza e la lettura del disagio che la caratterizza, è rintracciabile anche una significativa trasformazione della fenomenologia dei comportamenti di assunzione di sostanze e di dipendenza. Anche su questi cambiamenti ci soffermeremo brevemente perché, seppure essi come detto all’inizio non ricadono nelle specifiche competenze della Giustizia, è però evidente che hanno un peso legittimo nella costruzione del piano trattamentale.
Se da un lato c’è il dato allarmante dell’abbassamento dell’età della prima assunzione di sostanze, dall’altro si è sempre più in difficoltà nel definire, sia quantitativamente sia qualitativamente, un fenomeno che non risponde più alle tradizionali interpretazioni di esso, utili fino a qualche decennio fa. Gli elementi di novità consistono non tanto nelle sostanze utilizzate, quanto piuttosto nelle modalità di approccio alla sostanza e negli atteggiamenti- ad un tempo cognitivi, emotivi e relazionali – che sottendono il consumo di queste sostanze. E’ per questo che piuttosto che di “nuove droghe”, termine largamene utilizzato in letteratura, sarebbe più corretto parlare di “nuove modalità di consumo”. Un corollario di queste nuove modalità di consumo è il fenomeno della poliassunzione nel quale “l’innamoramento” per una determinata sostanza viene sostituito da una propensione generalizzata verso i consumi che, come ben ci ricorda Bauman, è indissolubilmente legata ad una più generale esasperazione consumistica anche rispetto ad esperienze, prodotti, rapporti, ecc..I nuovi profili di consumo si manifestano quindi attraverso il ricorso ad una pluralità di “vecchie” e “nuove” droghe: il nuovo consumatore è soprattutto un policonsumatore.
D’altra parte, la novità delle modalità di consumo chiama immediatamente in causa i cambiamenti intervenuti nel soggetto dei consumi: il profilo del “nuovo consumatore” è distante sotto molti aspetti da quella del “vecchio consumatore” di sostanze. L’elemento di maggior distanza tra “nuovo” e “vecchio” consumatore sta nella piena adesione del primo ai valori predominanti, nella sua piena integrazione sociale: adesione e integrazione che egli ricerca attivamente, laddove il “vecchio” consumatore si poneva deliberatamente ai margini della società, partendo da una posizione di contestazione dei modelli culturali prevalenti (4).
A tale proposito si parla oggi di invisibilità del consumatore, a cui si accompagna una seconda caratteristica che è quella dell’ubiquità sociale: la sostanza, nel caso delle nuove modalità di consumo, sembra costituire uno strumento per entrare nella realtà, un mezzo per mantenere con maggiore facilità la propria posizione sociale assolvendo apparentemente in modo meno faticoso ai compiti che essa richiede. Questo bisogno di ricerca ed esplorazione, nel caso delle cosiddette nuove droghe sembra dirigersi proprio verso l’esterno: la definizione stessa di sostanze empatogene enfatizza questo aspetto, esse vengono ricercate perché inducono un innalzamento della performance e consentono il superamento dei limiti soggettivi. Tutto ciò si riflette anche in una minore consapevolezza da parte del consumatore rispetto alla propria dimensione di dipendenza e all’insieme di fattori che la determinano, soprattutto se a ciò si aggiunge il fatto che la dipendenza oggi non è più legata solo a sostanze notoriamente nocive, ma anche a comportamenti comuni, largamente diffusi e ampiamente accettati dal sociale (vedi le dipendenze tecnologiche, i disturbi alimentari psicogeni, la diffusione del doping legato ad attività sportive, ecc.).
Anche in virtù di ciò, è attualmente molto difficile delineare un unico ed inequivoco profilo del consumatore attuale che oggi ha mille e nessun volto, e sembra rientrare in quelle forme di identità patchwork tipiche delle generazioni cresciute nella cultura postmoderna o delle identità a palinsesto della società dell’incertezza(5). La tendenza emergente sembra essere quella di un polimorfismo della costruzione identitaria che porta a privilegiare un adattamento autoplastico all’ambiente, modificando abitudini e stili comportamentali in funzione delle richieste dei differenti contesti. In tale modalità adattiva, coerente con la richiesta di flessibilità che caratterizza l’attuale fase storica e con le esigenze poste dalla società dei consumi, si inserisce il polimorfismo dei fenomeni di consumo di sostanze.Riassumendo, si può quindi dire che oggi il profilo del “nuovo” consumatore può essere quello di un poliassuntore, il cui consumo di sostanze è spesso limitato al weekend o alle occasioni sociali, nelle quali la funzione della sostanza è quello di offrire una sorta di autoterapia finalizzata al superamento delle inibizioni.
Minorenni tra devianza e consumo di sostanze: il ruolo della Giustizia Minorile
Qual è in questo nuovo scenario, di cui abbiamo cercato di delineare a grandi tratti alcune caratteristiche, il ruolo specifico della giustizia minorile? Intanto è noto che vi è tra i minori in carico alla giustizia minorile una quota minoritaria di soggetti che entrano nel sistema della giustizia per reati legati al consumo e allo spaccio di sostanze. Va specificato che, in molti casi, i reati legati allo spaccio non hanno all’origine anche un problema di consumo da parte dell’autore di reato, in altri casi si tratta invece di reati (spaccio, furto, ecc.) effettivamente legati all’uso e abuso di sostanze. In particolare, come evidenziano i dati relativi al 2008, la maggior parte degli assuntori di sostanze stupefacenti è di cittadinanza italiana (79%) mentre, per quanto riguarda gli stranieri, i più rappresentati sono i marocchini.
Per ciò che concerne i reati a carico, quello di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti rimane il più rappresentativo (57% del totale), seguito dai reati contro il patrimonio (36%), mentre quelli contro la persona sono meno frequenti (6%).
I cannabinoidi rimangono le sostanze maggiormente consumate (77% dei casi), seguiti dalla cocaina (9%) e dagli oppiacei (9%).
L’uso di cannabinoidi è maggiore per gli italiani che non per gli stranieri (rispettivamente 80% e 68%), mentre l’uso di eroina è riferibile per il 11% agli stranieri e per l’8% per gli italiani. In riferimento all’età, si rileva che la cocaina rappresenta il 10% delle sostanze assunte tra i minori della classe d’età 16-17 e tra gli ultradiciottenni, mentre è il 5% nella classe d’età 14-15 anni.
La stessa tendenza si registra per quanto riguarda il consumo di eroina (11% degli ultradiciottenni e percentuali minori per le altre classi d’età). I cannabinoidi sono invece maggiormente diffusi tra le classi d’età più basse (87% dei 14-15 anni, 77% dei 16-17 anni, 71% degli ultradiciottenni).
Per gli stranieri spesso si tratta di ragazzi senza permesso di soggiorno, senza famiglia e spesso senza fissa dimora, provenienti da paesi in cui vivono, probabilmente, in condizioni di maggiore disagio. Secondo informazioni pervenute dai servizi minorili risulta poi che l’abuso di sostanze si caratterizza come poliassunzione di sostanze stupefacenti e alcol.
L’uso di sostanze da parte di minori stranieri sembra essere legato allo spaccio o ad un consumo normale ed abituale non percepito come sintomo di devianza in quanto culturalmente accettato nel paese di origine, come nel caso delle popolazioni provenienti dal nord Africa(6)
I dati danno conto di questo segmento di soggetti all’interno del circuito della giustizia minorile che pone, per le specificità di cui è portatore, un problema di ordine trattamentale reso ancora più complesso dal cambiamento delle modalità di assunzione e del profilo del consumatore, secondo quanto prima descritto. Inoltre va tenuto presente anche un ulteriore elemento di complessità introdotto dai nuovi riferimenti normativi che hanno modificato l’assetto delle competenze e degli ambiti di intervento per quanto riguarda il ruolo degli psicologi, e quindi dell’intervento sanitario, all’interno del sistema della giustizia minorile.
Con il DPCM 1° aprile 2008, predisposto dal Ministero della Salute, di concerto con il Ministero della Giustizia, dell’Economia e della Funzione Pubblica e dopo l’approvazione della Conferenza Stato-Regioni, sono state trasferite al SSN tutte le funzioni sanitarie e le relative risorse finanziarie, umane e strumentali afferenti la medicina penitenziaria. Tale passaggio di competenze richiede come da allegato A del DPCM “Linee di indirizzo per gli interventi del Servizio Sanitario Nazionale a tutela della salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari, e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale” la definizione a livello locale di accordi interistituzionali tra i referenti delle Regioni, delle ASL e i Centri per la Giustizia Minorile e i Servizi Minorili di rispettiva competenza territoriale per garantire la continuità nell’erogazione del servizio e del trattamento terapeutico nei confronti dei minorenni sottoposti a procedimento penale. Al fine poi di gestire la complessità di tale passaggio e garantire l’omogeneità degli interventi su tutto il territorio nazionale sono stati attivati presso la Conferenza Unificata due Tavoli Interistituzionali previsti dal DPCM (il Tavolo di Consultazione permanente sulla sanità penitenziaria e il Tavolo Paritetico sugli OPG).In particolare il tavolo sulla sanità penitenziaria ha elaborazione un accordo ‘Linee di indirizzo per gli interventi del Servizio sanitario nazionale a tutela della salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari, e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale’, che disciplinano modalità, criteri e principi del nuovo assetto della medicina penitenziaria. In considerazione di quanto sopra, i Centri per la giustizia minorile e i servizi minorili che hanno storicamente operato, tramite accordi di programma e protocolli, con le Aziende ASL e i SERT per gli interventi trattamentali nei confronti dei minori ristretti in I.P.M.(istituti penale per i minorenni), ospiti delle Comunità ministeriali, dei C.P.A.(centri di prima accoglienza) o in carico all’USSM (uffici di servizi sociali), hanno attivato le procedure per l’attualizzazione delle collaborazioni secondo i riferimenti definiti dal DPCM e dalle Linee di indirizzo sopra citate. Lo scenario attuale prevede, pertanto, che l’assistenza ai soggetti tossicodipendenti sia garantita dal Ser.T. dell’Azienda Sanitaria, competente per territorio, che stabilisce rapporti di interazione clinica, sia con i servizi minorili che con la rete dei servizi sanitari e sociali che sono coinvolti nel trattamento e nel recupero dei tossicodipendenti. La presa in carico del tossicodipendente prevede l’attuazione delle misure preventive, diagnostiche e terapeutiche che riguardano sia l’aspetto clinico che quello della sfera psicologica. Alla luce di questo nuovo assetto normativo, e quindi organizzativo, è necessario ridefinire anche le funzioni e le responsabilità che attengono alla giustizia minorile.
Se, come detto, la presa in carico del minore sotto l’aspetto strettamente sanitario è ora posta all’esterno, e attiene ai servizi sanitari, alla giustizia rimane la competenza rieducativa che però non può prescindere da tutti quegli elementi di complessità fin qui delineati. Complessità che rende necessario innanzitutto individuare le competenze che attengono alla giustizia minorile, per integrarle con quelle degli altri servizi, al fine di costruire progetti terapeutici globali e multimodali. In tal senso, una prima questione da dirimere è quella riguardante la cosiddetta “doppia diagnosi”, di cui la letteratura psicopatologia negli ultimi anni si è molto occupata.
Ovvero, il comportamento di dipendenza rappresenta l’epifenomeno di una organizzazione psicopatologica della personalità dell’adolescente, oppure esso va considerato quale tratto e disturbo primario sul versante socio-patico? In altre parole, il disturbo psicopatologico viene “nascosto” dall’uso di sostanze o, al contrario, è da esse scatenato? E’ chiaro che la propensione verso l’una o l’altra ipotesi, entrambe ampiamente dibattute in letteratura, comporta scelte trattamentali differenti, l’una più schiacciata sul versante della cura psichiatrica, l’altra più orientata al livello rieducativo e “correttivo”.
Proprio rispetto al problema posto dai casi di doppia diagnosi va detto che sono scarse le strutture di tipo comunitario dedicate ai soggetti che necessitano di un trattamento legato e al disturbo psicopatologico e al problema di assunzione di sostanze. Se infatti questi casi possono rappresentare un segmento limitato dell’utenza all’interno degli Istituti Penali Minorili, il loro numero aumenta di significatività se si considerano anche tutti i minori in carico al servizio della giustizia minorile. Si pone quindi il famoso problema del lavoro di rete tra servizi, volto alla costruzione di un sistema integrato multisettoriale e multispecialistico in grado di offrire all’adolescente un progetto terapeutico individualizzato, integrato e multimodale. La necessità di lavorare in rete non costituisce di certo una novità né per il sistema della giustizia minorile né tanto meno per i servizi territoriali, tuttavia essa sembra tutt’ora impegnare le varie amministrazioni in una sfida complessa e ancora lontana dalla sua piena realizzazione.
E ciò tanto più se il lavoro di rete viene inteso non come semplice operazione di invio del minore ai servizi territoriali competenti, o scambio di informazioni tra un servizio e l’altro, ma come strumento di costituzione di un’equipe di lavoro formata dai vari attori sociali preposti ad occuparsi, con funzioni diverse e sulla base delle specifiche competenze, del minore.
A tale scopo, gli interventi di ordine sanitario nei confronti dei minori ristretti che presentano un problema di assunzione di sostanze, pur mantenendo la propria specificità, sono parte di un intervento socio-sanitario-educativo che si attua all’interno del contesto penale, il quale caratterizza ulteriormente la qualità dell’azione dei soggetti coinvolti. La presa in carico di questi minori, così come di tutti quelli che entrano in contatto con le strutture della Giustizia minorile, avviene a partire da una valutazione multidisciplinare che deve essere fatta da una equipe di operatori: medici, psicologi, educatori, assistenti sociali da attuarsi anche in tempi successivi che consenta di evidenziare le caratteristiche del minore e i suoi bisogni “assistenziali” (sanitari, educativi e sociali) rispetto ai quali costruire un programma di presa in carico che preveda tutti gli interventi necessari individuando contestualmente gli enti e gli operatori responsabili della loro attuazione. C’è da dire che la valutazione multidisciplinare congiunta consente di attuare anche tutti gli interventi necessari a risolvere situazioni di urgenza.Da ciò consegue che soprattutto per i soggetti minorenni e giovani adulti che presentano disturbi psicopatologici, alcol dipendenza, tossicodipendenza o portatori di doppia diagnosi, sono necessarie non solo una valutazione specialistica – che si integri con quelle di diversa natura – da realizzarsi in tempi relativamente brevi ma anche eventualmente l’immediato collocamento in strutture di cura – si pensi ad esempio a soggetti che presentano sindromi acute o comunque la previsione di interventi terapeutico(7) . Nello specifico dei minori con problemi di dipendenza, sono state in tal senso già avviate da questa amministrazione progettualità basate su un intenso lavoro di rete. Presso l’IPM Meucci di Firenze, nel corso del 2003 è stato attivato il progetto Aladino in collaborazione con il SerT, il C.G.M di Firenze, la Cooperativa sociale CAT, il CeSDA (Centro Studi Dipendenze e Aids di Firenze). Le finalità del Progetto sono state quella di modificare i comportamenti a rischio legati all’uso e all’abuso di sostanze stupefacenti, quella di offrire una maggiore informazione e sensibilizzazione sulle opportunità terapeutiche e riabilitative rese disponibili dai servizi pubblici, dagli Enti Ausiliari e dall’Associazionismo, oltre che una più approfondita conoscenza delle condizioni di vita dei minori stranieri accompagnati e dei servizi a questi rivolti.Allo stesso modo, presso l’IPM Malaspina di Palermo è stata avviata la collaborazione con medici ed esperti del Ser.T. che effettuano interventi specifici di consulenza e presa in carico di giovani detenuti portatori di problematiche legate all’uso di sostanze stupefacenti e alcoliche, individuando con il personale dell’Area Tecnica interventi trattamentali individualizzati (vedi inserimenti in comunità terapeutiche, trattamenti farmacologici, etc.) come previsto dalla legge sugli stupefacenti di cui al D.P.R. 309/90. Sempre a Palermo, sono stati anche realizzati incontri con i giovani detenuti di informazione e prevenzione su tematiche diverse (uso e abuso di sostanze alcoliche e sostanze stupefacenti), realizzati all’interno dei gruppi-classe e che hanno coinvolto nella fase progettuale sia l’équipe del Ser.T. sia l’équipe tecnica dell’Istituto e per quanto concerne la fase operativa anche gli insegnanti della scuola elementare e media che operano all’interno di questa struttura. Tuttavia ci rendiamo conto che quello del lavoro di rete tra le varie istituzioni è una sfida ancora aperta se consideriamo che oggi, ancor meno che nel passato, la complessità assunta dalle manifestazioni dell’uso e abuso di sostanze non possono trovare risposte efficaci in un interlocutore unico, mentre necessitano invece della forte coesione tra enti e servizi finalizzata a costruire un sistema di protezione che può esser immaginato come una vera e propria rete capace di avvolgere e contenere il minore.ConclusioniPremettendo che sarebbe interessante capire quanto i paradigmi interpretativi attuali rispecchino effettivamente la realtà osservata, cioè il minore adolescente e il suo disagio, e non l’osservatore di tale realtà, tali paradigmi evidenziano quale elemento caratterizzante l’adolescente contemporaneo, la confusione e lo stato di sospensione temporale e spaziale (che assume poi le forme dei ben noti fenomeni di “espansione dell’adolescenza” anche fino ai 30 anni). Se è vero che tale confusione, da una parte rappresenta uno dei tratti caratteristici dell’adolescenza, dall’altra è il riflesso, come detto prima, di una molteplicità di trasformazioni che hanno investito ambiti diversi (da quello familiare a quello sociale), allora è necessario costruire insieme interventi che prevedano un’integrazione tra servizi, e quindi tra competenze differenti. Il rischio che vogliamo però segnalare, e quindi scongiurare, è che questo lavoro di rete entri in una sorta di corto circuito ovvero in un sovrapporsi di interventi, giustapposti, se non addirittura in contrasto tra loro.
Un esempio attuale di tale rischio è il conflitto, che diventa sempre più evidente, tra l’istituzione scuola e l’istituzione famiglia, spesso divisi e frammentati rispetto ad interventi educativi che non di rado risultano essere in antitesi l’uno con l’altro, finendo per rafforzando la sensazione dell’adolescente di non poter individuare punti di riferimento stabili. Il rischio che vogliamo segnalare è quindi quello di cadere, per restare in tema, in una progettualità di interventi pachtwork, figli della stessa confusione a cui essi si propongono di dare risposta. E’ proprio l’analisi critica dei limiti e dei fattori di debolezza degli interventi attuali e le considerazioni sull’aspetto della confusione fatte prima, che spinge la giustizia minorile a riflettere su come sviluppare azioni di contenimento, inteso in senso winnicottiano, del minore.
E’ su questo ambito che vogliamo impegnarci per contribuire al superamento di tutti quegli aspetti di frammentazione e solitudine che rendono il disagio adolescenziale di difficile intercettazione per gli operatori e le istituzioni, i quali finiscono a loro volta per rimanere vittime dello stesso isolamento che si prefiggono di contrastare. In tal senso la giustizia si sta interrogando su quali strategie mettere in campo per costruire un sistema protettivo intorno al minore, costituito da una pluralità di soggetti interagenti tra loro, che ha come finalità ultima quella di potenziare il “capitale sociale” dei giovani, inteso quale bagaglio relazionale e valoriale che un soggetto costruisce nel corso della propria esistenza, in una determinata società.Lo sviluppo e il rafforzamento del capitale sociale potrebbe infatti costituire un efficace deterrente rispetto al gesto violento che, alla luce di quanto detto, nell’attuale società posmoderna può essere letto quale modo distorto di affermazione della propria individualità, in un contesto nel quale l’impoverimento della dimensione relazionale, del rapporto interpersonale affettivamente saturo, sembrano aver ridotto la possibilità per l’adolescente di ricevere conferma e riconoscimento dall’altro. Nel gesto violento, così come nell’atto vandalico, non sembra più prevalente l’aspetto della sfida e della trasgressione delle norme; piuttosto, tali fenomeni possono essere visti come effetti prodotti dall’esperienza di isolamento, di delegittimazione identitaria e di perdita di senso(8)
.Milano, 18 novembre 2010
il Direttore generale per l’attuazione dei provvedimenti giudiziari del Dipartimento giustizia minorile S. Pesarin
NOTE:(1) ICARO, Indagine sugli stili di consumo delle cosiddette “nuove droghe” a Cagliari, Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali, Casa Editrice Psicoanalisi Contro, Roma, 2004.(2) Ragazzi sregolati. Regole e castighi in adolescenza (a cura di), (Franco Angeli, 2001).(3) Benasayag M., Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004.(4) ICARO, Indagine sugli stili di consumo delle cosiddette “nuove droghe” a Cagliari, Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali, Casa Editrice Psicoanalisi Contro, Roma, 2004.(5) Z.Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1994.(6) Dati Giustizia Minorile 2008(7) Conferenza Unificata Stato Regioni, Linee di indirizzo per l’assistenza ai minori sottoposti a provvedimento dell’autorità giudiziaria, 26 Novembre 2009.(8) U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007.